Il voto che mi è utile di Monica
Mazzitelli
Dopo il
mio ultimo voto dato a Sinistra Critica alle elezioni politiche del 2008 non ho più potuto
votare per altre consultazioni parlamentari perché non mi sono sentita rappresentata da nessuna forza candidata.
Ricordo benissimo quanto venni criticata da molti perché votare SC significava
dare un voto totalmente inutile. Il voto utile a loro avviso sarebbe stato
quello per un partito che fosse arrivato in Parlamento e avesse potuto influire
politicamente.
Sono passati dieci anni, e tanti miei amici non
hanno più votato; non
perché fosse sparita SC ovviamente − molti votavano comunque PD − ma
perché delusi dai risultati dei loro utilissimi voti
precedenti. Qualcuno ha anche votato
Movimento 5 Stelle, vergognandosene poi.
Sono
felice di non aver mai perso la mia bussola, e vivere in un paese come la Svezia dove
trovo invece votabili molti partiti in lizza (che insieme raggiungono
attualmente il 46.7% della rappresentanza!) mi ha resa semmai ancora più convinta
che l’unico
voto veramente utile è quello che si dà per esprimere la propria vera voce.
Le elezioni sono praticamente l’unica occasione
che i cittadini hanno per dire ciò che pensano e far valere il più democratico
dei diritti. È un’occasione rara, che è
un delitto sprecare. I voti cosiddetti “utili”, invece, producono
astensionismo, distacco dalla politica, populismo, e in ultima analisi anche
rigurgiti di fascismo, che pesca in un disagio sociale e impaurito alla
ricerca di qualcuno da appendere a una forca. Non che i movimenti xenofobi
manchino in Svezia – beninteso – con il partito che li cavalca
al 12.9% e in crescita, purtroppo. Ma quella percentuale di persone che hanno
bisogno di un diverso, di un nemico da odiare, sono quasi
inalienabili ogni volta che si mascheri il problema della povertà e del disagio
sociale nascondendolo dietro alla questione della “sicurezza”.
Per questo ho tirato un sospiro di sollievo leggendo della
nascita di Potere al Popolo. Mi
è del tutto chiara la differenza tra questo partito e quelli che ho votato
dieci anni fa. Non per quella “identità sentimentale”, come la definisce
molto bene Christian Raimo, il cui calore sento anche io al 200%; ma perché il programma sembra aver recepito questi
ultimi dieci anni in cui la visione politica si è slegata definitivamente da
un’ideologia universale e ha preso un respiro circoscritto,
regionale, comunale. Il
programma ha a che fare con la concretezza dei problemi in modo pragmatico, da
lista civica, e prendo atto che dopo il Movimento 5 Stelle l’arena politica sia
diventata questa. E ho anche la sensazione che ci siano parecchie realtà
rappresentate sotto lo stesso tetto, con anche qualcuno pescato un po’
avventatamente, di cui ci si pentirà. E mi fa
un po’ orrore lo slogan “accetto la sfida”, così americano,
superficiale, televisivo, come fosse un gioco e non un impegno. A me dettagli così fanno paura; come cuori
su Facebook per la ricerca contro il cancro al seno.
E
se non fosse nato a Napoli, troverei veramente terribile il nome del partito,
così populista e in
qualche modo ottuso nel credere che ci sia solo UN popolo, tanto per
cominciare, compatto e unisono, e anche che questo popolo sia diverso da quello
che vota oggi per tutte altre formazioni politiche. Il
popolo è sempre popolo, e purtroppo è esattamente quello che viene
rappresentato in parlamento, oggi. Un
popolo impoverito, che patisce una crisi che non ha avuto un vero sollievo da
anni, al contrario anche di altri paesi del sud Europa, per non dire del
nord Europa. Un
popolo che vuole sollievo ai suoi problemi personali senza
preoccupazione per chi sta peggio, neanche fosse per quella carità un po’
pelosa e democristiana che c’era nella prima Repubblica. E mi
vengono in mente altre possibili denominazioni per questo partito che mi
avrebbero dato maggior senso di identificazione, ma che non avrebbero contenuto
quel bel senso partenopeo di “popolo” che la gente di Napoli può ancora
permettersi.
La
presenza di Lidia Menapace nella lista mi ha dato poi il senso di un’ultima
preziosissima zattera di antifascismo di cui sento davvero bisogno, e le
giovani donne che sono con forza nelle prime file del partito mi forniscono
speranza di un futuro femminista per un
paese dove governa una cultura patriarcale uguale a quella degli anni ottanta,
con persino la Casa delle Donne di Roma che ospita un convegno sulle “sex
workers” come se la vendita dei propri genitali potesse mai essere un lavoro.
Ma
ammetto che probabilmente non avrei scelto di contribuire all’inquinamento
planetario comprando un biglietto aereo per tornare a Roma a votare questo 4
marzo se non fosse stato per il test di
appartenenza politica proposto da Repubblica. Per
curiosità, forse per desiderio di propaganda politica a favore di PaP sulla mia
pagina personale di Facebook, ho deciso di farlo. E già
dall’inizio ho trovato irritante che venisse proposto di scegliere un avatar
offrendo una scelta di facce da ragazzini un po’ cool e simpatiche. Ho 53 anni e mi ritengo piuttosto cool e
simpatica, tuttavia
non ho una faccia da ventenne e a dire il vero non la voglio.
Perché io sono io, nel bene e nel male, e sono
una donna di 53 anni felice del suo posto nel mondo persino in un paese di satrapi e veline. Quindi non scelgo un avatar e proseguo con
il test, che alla
fine mi propone un grafico dove arriva fino a Liberi e Uguali
(quello che ha le donne che sono le foglioline, presente?), mentre
manca del tutto Potere al Popolo. Tolto. Non
considerato. Irrisorio. Un
voto inutile.
È stato in quel momento che ho capito che
dovevo comprare il biglietto.
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