UN'INTERVISTA INTERESSANTISSIMA a due candidati
antispecisti. Da leggere, riflettere e condividere. Una strategia di
rivoluzione prima culturale e poi materiale (anticapitalista ed ecosocialista)
che non esclude nessun vivente
Intervista ai candidati antispecisti nelle liste di Potere al Popolo
a cura di Valerio Pileri
Intervista ai candidati antispecisti alle elezioni politiche e
amministrative del 2018 nelle liste di Potere al Popolo
Marco Maurizi, filosofo e insegnante, autore di “Al di là della natura” e del saggio “Cos’è l’antispecismo politico?” può essere considerato il
teorico italiano di riferimento dell’antispecismo politico (ap), e Barbara Balsamo, insegnante e attivista per la liberazione animale che ha recentemente
tradotto il libro di Steve
Best “Liberazione totale” sono entrambi
candidati nelle liste di Potere Al Popolo (pap) per le prossime elezioni, Marco per
il consiglio regionale del Lazio e Barbara per il senato nel collegio
plurinominale Lazio 1.
1. Intanto due parole più semplici
possibili per dire cosa è l’AP e cosa debba intendersi per Liberazione totale.
MM: Quando ho introdotto l’aggettivo “politico” qualche anno fa non intendevo
creare una “corrente” o un’etichetta ma solo sottolineare un aspetto della lotta di
liberazione animale
che secondo
me è essenziale e che viene invece solitamente dimenticato. La
lotta contro lo specismo è una lotta per una società non
specista e deve quindi
attrezzarsi con concetti e linguaggi adatti a descrivere i fatti sociali.
I fatti sociali (come il profitto, i
mass media, le istituzioni, la repressione ecc.) non sono “opinioni”, non obbediscono
a motivazioni psicologiche ma a leggi
oggettive di altro tipo. Lottare
per una società affrancata dal dominio significa conoscere queste leggi e
spostare il conflitto al loro livello. Poiché il movimento per i diritti
animali si è invece sviluppato negli anni ’80 in un periodo di eclisse
dell’agire politico, collettivo, organizzato, in cui le grandi utopie e
ideologie del XX secolo sembravano declinare per fare spazio ad un mondo
post-ideologico, un’età dei “diritti” in cui l’oppressione e lo sfruttamento sembravano
dovuti solo a “pregiudizi” e che sarebbe bastato
impegnarsi tutti nel quotidiano e convincere la maggioranza che siamo tutti
“uguali” per realizzare una società più giusta…beh in un’epoca del genere era
normale che anche la lotta contro lo sfruttamento animale prendesse quelle
forme. Oggi che un nuovo
radicalismo politico comincia a reclamare il cambiamento reale, a livello
sociale, a livello economico e politico, non
più solo “culturale”, ecco che l’animalismo si trova indietro, rimane
ancorato ad una visione moralista e individualista del conflitto (io che lotto con i
miei vicini per convincerli a diventare vegan) piuttosto che contro chi attivamente produce lo sterminio di miliardi di
animali l’anno (multinazionali e governi
conniventi). Questo sistema sfrutta sia gli umani che
gli animali ed
è insensato pensare di liberare gli animali in un mondo in cui gli umani sono
ancora schiavi. Non ci può essere società giusta, solidale ed empatica nei confronti
degli animali che sia in se stessa fondata
sull’ingiustizia e sul conflitto. Ovviamente non mi sono mai sognato di dire che bastasse
lottare contro lo sfruttamento umano per porre fine allo sfruttamento animale.
È
solo un presupposto ma se non si lotta attivamente per una società fondata su
principi di eguaglianza e solidarietà, ogni estensione di questo principio al
non-umano è destinato a restare illusoria. Attenzione anche qui: non ho neanche mai pensato che si trattasse
di “aspettare” la realizzazione di una società giusta per iniziare a praticare
la liberazione animale. Sono gli animalisti a
pensare che queste due lotte percorrano binari separati o che l’urgenza dovuta
alla sofferenza animale dia una qualche “precedenza” alla lotta allo specismo. Io non l’ho mai pensato. È giusto lottare per la liberazione animale qui e ora. Ma è privo di senso
farlo se al tempo stesso non si lotta per una società che quella liberazione
rende effettivamente possibile, ovvero se non si
contribuisce attivamente a rovesciare un sistema
economico fondato sul profitto, combattere la degenerazione autoritaria delle
forme politiche e l’asservimento dei media agli interessi delle élite.
BB: Intanto partiamo dal
dato oggettivo: gli altri animali, a
vario titolo, sono sfruttati e uccisi, in tutto il mondo e in tutte le società,
da sempre. La riflessione filosofica,
antropologica e storica circa questo fenomeno ha tentato di dare una
spiegazione coerente sul perché questo accada. Sebbene lo sfruttamento animale accompagni
l’essere umano sin dagli albori quello
che l’antispecismo politico ha tentato di fare, diversamente da tutte le altre
teorie che lo hanno preceduto, è ricondurre le cause a ragioni materiali, strutturali, sociali appunto e non “metafisiche”, “ontologiche”. Invertire
questo assunto implica inserire lo sfruttamento animale all’interno di un
quadro più complesso e organico che connota le nostre società e che può
essere ricondotto al capitalismo, massima espressione a sua volta della
società di dominio e della gerarchizzazione del vivente. In
effetti lo sfruttamento animale si concretizza nella riduzione dell’altro animale a merce e al suo
asservimento per profitto. Non si tratta dunque di “cattiveria” innata dell’essere umano, o di “sadismo” bensì di sfruttamento del vivente per appagare i propri
bisogni e per trarne profitto. Alla luce di questa teoria
allora, l’intero paradigma muta e la questione animale non rimane più appannaggio isolato
di una cerchia di “sensibiloni animalisti” ma una lotta di giustizia sociale vera propria che si prefigge, attraverso la liberazione degli altri
animali anche la liberazione dell’essere umano, poiché
finché l’essere
umano opprimerà e ucciderà altri individui animali non troverà la
dimensione della condivisione, della solidarietà, della partecipazione. Ci sarà sempre un altro più simile all’altro animale di
noi. Ecco che allora nella liberazione animale si prefigura
una liberazione totale dalle oppressioni. L’intersezionalità delle lotte e l’obiettivo
comune di abbattere il sistema oppressivo gerarchico alienante capitalista diventano il perno su cui avanza
una liberazione totale.
2. L’antispecismo, ancorché politico, è una
ideologia piuttosto recente con varie accezioni diverse da quelle che assumete voi,
che vanno da quelle metafisiche delle origini del termine che lo rendevano una argomentazione
logica ritenuta capace di far luce sul (e quindi di abbattere il) pregiudizio
di specie ereditato da secoli di cultura antropocentrica, a declinazioni più recenti che moralisticamente mettono al centro della discussione esclusivamente le forme di
sfruttamento degli animali ai quali, in assenza di una
presunta autonoma capacità di protesta da parte loro, occorre dare voce umana, fino
all’antispecismo del comune che sviluppa la critica al dispositivo binario identitario uomo/animale ricercando invece un’ essenza comune del vivente negata (per convenienza a protrarre lo sfruttamento
del vivente) dai meccanismi di potere. Tutte queste posizioni hanno
finora in comune la presa di distanza dalla delega del potere istituzionale
(alcune si caratterizzano qualunquisticamente proprio per essere
sostanzialmente apolitiche, ovvero si ritengono per definizione politiche, ma
comunque diverse dalla rappresentanza politica), volendo essere movimenti culturali che mettono in discussione gli
aspetti di discriminazione (rintracciabili anche in altri contesti
movimentisti ) agendo dal basso e senza
delega (come rivendicano di dover fare anche molti attivisti che si
definiscono antispecisti politici). Come
nasce quindi strategicamente l’ipotesi alla base di candidarvi alle prossime
elezioni? E PAP è un movimento
politico così diverso dagli altri da potere incamerare direttamente le istanze
antispeciste? O è una strategia più
ellittica e di più ampia portata? E
quali sono state le riflessioni che, dopo diversi anni di, almeno dichiarato,
contrasto con la politica rappresentativa, vi hanno portato a questa scelta?
BB: La
risposta è in parte insita già nella domanda. Finché
non ci sarà una forza politica così forte e radicale da avere come obiettivo
quello di sovvertire i rapporti di potere tra politica e economia, tra capitale
e società non potrà realizzarsi
alcun cambiamento effettivo. Abbiamo visto come fino ad oggi le parti politiche,
anche e soprattutto quelle sedicenti di sinistra, si sono limitate a rendere il capitalismo meno invasivo a livello sociale, come un veleno rilasciato gradualmente, lo zucchero di Mary Poppins con cui ingoiare la pillola. La lotta antispecista non è mai stata accolta all’interno
dei movimenti politici poiché in realtà non è mai stata
proposta. Ci si è presentati o come soggetti che
promuovono il veganismo – seppur etico – o, ancor peggio, come animalisti, amanti degli animali – senza alcuna base argomentativa a supporto ma solo l’amore per “loro” – come se per rispettare un altro
individuo serva amarlo. Motivo questo che ha
reso l’animalismo tanto caro alle destre che invocano l’innocenza degli altri animali contrapponendola alla corruzione dell’animo degli
umani. In un’ottica
antispecista Potere al
Popolo è l’unica alternativa politica radicale, l’unica realtà che parte dal basso, dai movimenti di resistenza al
dominio. È l’unica che attraverso proposte
politiche concrete prefigura una rottura con il sistema capitalistico dominante e propone una nuova visione della società, dei
rapporti di forza, restituendo agli
ultimi – anche quindi, agli altri animali – la possibilità di riscatto. Proprio per questo l’antispecismo, la lotta di
liberazione animale trova il suo posto “naturale” tra le altre lotte. Fino ad ora le iniziative di cui mi sono fatta
portavoce si connotavano per la loro forza di rottura, antisistemiche e di
resistenza. Con l’associazione
di cui faccio parte, Per Animalia
Veritas, l’intento è sempre
stato quello di promuovere e praticare un modello di società libertaria e
solidale tra tutte le specie. Oggi sento che questo progetto
può entrare a far parte di un percorso condiviso più grande. Sta a noi antispecisti aprire il dialogo. Certamente le reticenze
esistono, lottare per la liberazione animale in un certo senso significa
scardinare completamente dalle fondamenta le esistenze collettive e individuali. Tuttavia è necessario tentare e combattere.
MM: Beh
io non
credo
che esistano formule politiche valide sempre e comunque, credo che occorra sempre calarsi nel particolare e
giudicare in base al contesto e al momento. La politica è una realtà complessa, in divenire, ogni
riduzionismo è schematico e sbagliato. Per es. il meccanismo passivizzante della delega, che ovviamente come principio critico, rappresenta solo una delle possibili degenerazioni dell’agire politico. Conosco molti
sedicenti “collettivi informali” in cui il leaderino di turno comanda in
forma molto più dispotica di quanto
accada in organismi in cui il vincolo della rappresentanza funziona in modo non
opaco. La differenza la fa, come ben diceva Rosa
Luxemburg, il livello di
coinvolgimento e di coscienza politica di coloro che partecipano attivamente
alla trasformazione sociale: laddove il movimento ristagna in senso quantitativo e qualitativo
è più facile che una burocrazia si incisti e finisca per controllare il momento
decisionale; laddove il movimento si fa
impetuoso e vitale, laddove si partecipa in tanti, ci si informa, si discute,
si contesta, si agisce ecc. la deriva burocratica
è, se non scongiurata, resa molto più difficile e i suoi effetti
possono essere limitati. D’altronde,
come non credo che la società sia composta di individui ma di strutture e istituzioni che si tratta di colpire
e trasformare in senso democratico, così penso che l’azione politica abbia
bisogno anche di questo livello. Pensare che ogni forma di oggettivazione
dell’agire politico sia di per sé mortifera e totalitaria è individualismo spicciolo di ritorno, significa essere succubi dell’ideologia liberista che ha accolto con favore
il fatto che la sinistra abbia abbandonato i luoghi della rappresentanza e le
abbia lasciato in mano gli strumenti del potere politico centrale, l’amministrazione dei
territori, la gestione dei rapporti sindacali ecc. Entrare
nelle istituzioni per me significa portare dentro i luoghi della rappresentanza
il conflitto sociale, non
per risolvervelo, ma per rendere più
difficile la vita a chi intende gestire la società avendo come unico fine il
profitto attraverso l’autoperpetuazione di una
classe dirigente connivente. Un progetto come PaP si
pone appunto come esperimento politico che cerca di legare insieme la necessità
di unificazione delle lotte e di restituire alle classi subalterne lo spazio di
agibilità politica che gli è stato sottratto in decenni di
attacco frontale da parte delle élite.
Si tratta di un progetto a lunga scadenza: la speranza è che questo tentativo di ricomposizione delle istanze
disperse del conflitto possa sopravvivere all’ormai mitico
tafazismo di sinistra che ci porta a disperderci in mille rivoli ognuno convinto di essere
portatore della Verità, mentre gli altri sono traditori, conniventi,
opportunisti ecc. Per quanto riguarda le posizioni
antispeciste ci sono realtà dentro PaP che hanno una posizione molto avanzata (penso soprattutto al
Collettivo Ecosocialista di Sinistra
Anticapitalista di cui facciamo parte
sia io che Barbara) ma
si tratta di posizioni minoritarie, questo non c’è dubbio. Ma gli antispecisti che si lamentano perché i
movimenti antagonisti non affrontano le tematiche relative allo
sfruttamento animale dovrebbero anche chiedersi cosa
hanno fatto loro finora per aspettarsi che chi contesta il sistema accogliesse queste istanze
come legittime. Noi vogliamo far sentire la voce degli
animali dentro questo movimento e, ovviamente, più saremo, più
lotteremo con coerenza per la fine dello sfruttamento del vivente umano e
non-umano più questa posizione – che dal
mio punto di vista è l’unica coerente – potrà
farsi ascoltare e risultare convincente. Come detto prima: la differenza la farà il grado di partecipazione e il livello di
coscienza che si sarà in grado di
portare dentro le istanze di un movimento che è, per sua natura,
plurale e non omogeneo. Chi, per preservare la propria “purezza”, rifiuta di
stare dentro le lotte di contestazione all’attuale sistema, perde l’occasione
di far sentire la voce degli animali come un momento centrale di quelle lotte.
3. Sappiamo che siete stati
candidati nell’ambito della formazione
di sinistra anticapitalista (sa), una delle componenti politiche
che sono confluite in pap. Ci raccontate
il vostro ingresso in sa, se avete incontrato diffidenze iniziali e come sono
state superate, e come è avvenuto il vostro percorso per ottenere
riconoscibilità politica in quella formazione, sia di voi che delle vostre
istanze che soprattutto della vostra “affidabilità” come compagni (mossi da
motivazioni non direttamente umane) che
ha portato ad ottenere la fiducia addirittura per essere selezionati a una
candidatura che, insieme alle
tematiche dell’ecosocialismo e dell’antispecismo dovrà vedervi impegnati ad
affrontare anche tutte le rivendicazioni sociali antagoniste al centro
dell’agenda del nuovo soggetto politico (il mutualismo, le politiche di
auto-organizzazione, i bisogni essenziali)?
MM: diciamo che probabilmente
i tempi erano maturi e che un
lavoro teorico che è stato fatto negli scorsi anni ha dato qualche frutto. Per quanto mi riguarda ho
iniziato a scrivere dell’animale come questione politica dal 2005 ormai…(avevamo anche cercato di fondare un Collettivo Antispecista dentro Sinistra
Critica ma senza grande successo). Avendo
cercato di chiarire in tutti questi anni in che senso si poteva calare lo
sfruttamento animale dentro dinamiche più ampie (storiche, economiche e politiche) e quindi
comprenderlo come fatto sociale ha incuriosito più di una persona che finora a sinistra aveva sentito
parlare di animali solo da persone che riducevano
lo specismo a pregiudizio individuale e la lotta allo specismo come diffusione
dello “stile di vita vegan”. Si è ritenuto che il mio
percorso fosse coerente e credibile e che la mia militanza per la liberazione
animale non fosse in contraddizione con la mia concezione socialista dei
rapporti sociali ed economici. Mi è stato chiesto di fare degli interventi per spiegare
queste cose che sono stati apprezzati e da lì è nata una collaborazione stabile.
Anche perché il terreno era fertile: il collettivo ecosocialista di Sinistra Anticapitalista è
un luogo di elaborazione teorica notevolissima perché coinvolge persone validissime (a parte me!) che muovendo da campi di indagine diversi tentano di
offrire una visione complessiva della crisi in atto. Quindi intendiamo l’oikos non
come mera somma di istanze diverse (scientifiche, psicologiche,
economiche, filosofiche…) ma
come totalità: si tratta di aggredire il sistema come insieme
articolato di forme di sfruttamento diverse e non si può farlo se non cercando di
leggerlo, appunto, come una totalità. In questa totalità rientra non solo lo
sfruttamento della natura (come è nel caso dell’ecologia classica) bensì anche il problema clamoroso della soggettività animale.
BB: Sono entrata
inizialmente nel collettivo ecosocialista grazie a Marco Maurizi, risorsa inesauribile di
momenti di incontro con le realtà resistenti sul territorio romano. Ho scoperto con grande gioia che tutte le istanze
dell’antispecismo politico in realtà erano già contenute nell’ecosocialismo bisognava fare solo un ultimo passo per renderle coese
e organiche.
Penso che il motivo per il quale sia stato semplice entrare è la condivisione di una
visione olistica dei fenomeni di sfruttamento e oppressione nonché la convinzione che questi siano generati dal capitalismo. È stato un vero incontro: come dice H. Bhabbha
si è creato un terzo spazio nel quale noi antispecisti abbiamo colmato un
vuoto teorico e esperienziale nell’ecosocialismo mentre quest’ultimo ha consentito a noi antispecisti
di allargare gli orizzonti e poter portare la lotta di liberazione animale
all’interno dei movimenti politici di resistenza.
4. Potete illustrarci gli aspetti
centrali dell’ ecosocialismo? Numerose analisi hanno messo in evidenza la forte
contrapposizione esistente tra i modelli economici dei paesi occidentali e la
loro impronta ecologica (ovvero il consumo umano di “risorse” naturali rispetto
alla capacità che ha la terra di rigenerarle). Ad esempio, se tutto il mondo
fosse organizzato come gli Stati Uniti, il mondo si sarebbe già distrutto ben 7
volte; nel caso fosse organizzato riproducendo il sistema produttivo italiano
sarebbe già distrutto oltre le 3 volte. Come può l’ecosocialismo superare
questa contraddizione senza ricorrere ad un cambiamento qualitativo e
quantitativo della produzione?
BB: L’ecosocialismo propone una rottura
definitiva con il sistema capitalista. Non
si tratta quindi di aggiustare, modificare, riformare o come diremmo noi
antispecisti welfarizzare le produzioni. Bisogna proprio cambiare i modi
di produzione, abolire il Capitale. Questo non darebbe beneficio solo all’ambiente, ai lavoratori e alle
lavoratrici ma libererebbe
il vivente e gli altri animali. L’ecologia e la libertà dei soggetti sono incompatibili con il sistema capitalistico. E se l’ecosocialismo vede
nell’abolizione del Capitale anche la liberazione di tutti i soggetti oppressi,
come può non vedere gli altri animali in quanto soggetti oppressi? L’antispecismo si colloca per ragioni intrinseche tra
le istanze ecosocialiste.
MM: l’idea fondamentale è che un sistema produttivo non predatorio e
distruttivo della natura può essere solo il risultato di
un’organizzazione sociale solidale e democratica. Al tempo stesso, non c’è alcuna
nostalgia per forme sociali e produttive premoderne o arcaiche, né alcuna
condanna aprioristica della tecnologia o della scienza. L’idea è che la tecnica sia un modo di espressione del
rapporto tra l’uomo e la natura e che il suo aspetto distruttivo sia legato all’essere al servizio di una
classe dominante a scapito del resto degli individui umani e non-umani. Nella prospettiva
ecosocialista è anzi fondamentale che una società globale possa calcolare
l’effetto di medio e lungo periodo delle sue decisioni e restituisca agli individui e ai popoli questa
facoltà di autoderminazione: insomma, quanto
e come produrre è qualcosa che deve essere demandato alle reali esigenze di una
Terra che viene condivisa attivamente dall’umanità e dalle altre specie, la scienza e la tecnologia, lungi dal diventare strumento di
oppressione e tortura, potrebbero e dovrebbero
diventare strumenti di comunicazione, di arricchimento reciproco, di liberazione di potenzialità. L’inserimento in questo quadro della prospettiva antispecista
fornisce, a nostro modo di vedere, un tassello importante laddove questa
decisione collettiva non può essere presa lasciando fuori l’interesse delle
altre società non-umane con cui inevitabilmente entriamo in rapporto e spesso
purtroppo in conflitto. In altri termini, da un lato, abbiamo lo
sviluppo di un modello produttivo che interpreta la ricchezza condivisa non
in termini meramente quantitativi (la
riduzione dell’orario di lavoro tramite il progresso tecnologico, ad es.,
dovrebbe favorire lo sviluppo di relazioni che non siano più eteronome e
alienanti, ma siano libera espressione delle potenzialità individuali e
collettive), dall’altro, la democratizzazione delle decisioni non può che sviluppare una diversa sensibilità: da questi due elementi noi pensiamo sia più semplice favorire lo sviluppo di un’etica solidale e materialistica, fondata cioè sulla
comune mortalità, in cui l’animale non
figurerebbe più come “oggetto” o “risorsa”, bensì come un soggetto con cui condividiamo un comune destino e un’analoga aspirazione al benessere e alla felicità.
5. Ora una domanda
scomoda su un aspetto che un po’ sorprende nelle vostre candidature poiché oggettivamente
avete un profilo che non appare particolarmente rappresentativo delle istanze
di pap. Una delle novità di questa formazione era il superamento, almeno su un
piano simbolico, delle strutture sociali di inclusione/esclusione che si
stratificano nel potere e che la convinta candidatura di lavoratori precari
nelle liste (e non di semplici “cittadini onesti” grillini), mettendo l’accento direttamente sul
problema dello sfruttamento, dava visibilità a quelle avanguardie sociali (le lavoratrici precarie sfruttate, appunto)
rappresentative di tutti coloro che, anche non di sinistra, vivono sulla loro pelle
lo sfruttamento e
la precarizzazione e che li potrebbe
accomunare fino a condividere l’idea di avviare un percorso radicale di
cambiamento e di lotta che può confluire in pap (riuscendo quindi a
portare alla formazione l’interesse e il contributo elettorale esterno di tanti
che sono al di fuori della somma algebrica delle componenti che formano pap). Voi pensate che questa scelta di affiancare
alle candidature “operaie” candidature più “canoniche” provenienti
dall’attivismo delle formazioni politiche confluite in pap (e dall’ottimo
curriculum, come le vostre e quelle di altri compagni, ovviamente) sia comunque condivisibile (anche da un punto di vista antispecista)
per arrivare a una necessaria sintesi tra le
diverse correnti che animano pap (così
come poi è avvenuto) poiché rimane
un punto dirimente per le ambizioni e la coesione del movimento post-voto? Oppure si poteva fin da ora rischiare di essere più coraggiosi (essendo peraltro molto difficile
raggiungere il 3%) chiedendo alle
formazioni costituenti di mettere a disposizione della campagna i propri
apparati senza necessariamente indicare propri candidati (se non di servizio) ma convergendo su
poche candidature simboliche da presentare in molti collegi? Insomma, rimanete genuinamente mirati a superare i riti
tradizionali del potere e delle politica per far emergere i punti sul lavoro (cui collegare via
via le altre istanze) oppure in questa fase l’urgenza di creare un
corpo intermedio “capace” tra movimenti e istituzioni deve far premio
(per pragmatismo) sull’ideale (che però potrebbe portare voti inattesi)?
MM: guarda, sicuramente si può fare di più
sotto i punti di vista, seppure a un progetto come PaP, nato poco più di due
mesi, probabilmente
non si può chiedere più di quello che sta facendo (che non è poco per altro). Devo però correggere un malinteso che può derivare dal
fatto che io e Barbara proveniamo dall’esperienza del Collettivo Ecosocialista
di SA. Il fatto è che da un certo punto di vista noi siamo a tutti gli
effetti due candidati in qualche modo “esterni”: è cioè vero che da un anno collaboriamo con il Collettivo ma è anche
vero che la decisione di SA di chiederci di candidarci per PaP è stata comunque
coraggiosa, perché come ultimi arrivati ci ha investiti
di una fiducia e di una stima che ci ha sorpresi. Ben difficilmente il nostro “profilo” è quello di un
militante classico di questa formazione, tantomeno di un quadro o di un dirigente. Anzi. Per questo ringrazio i compagni che ci hanno
convinto (nel mio caso dovendo superare un bel po’ di mie resistenze…), hanno avuto coraggio e si sono spesi per noi,
sostenendo le nostre candidature in assemblee in cui il nostro nome e il nostro
lavoro non era certo conosciuto da tutti. È vero che c’è in questo modo sempre qualcuno che propone
candidature…ma mi chiedo se, al di fuori dell’assemblearismo telematico del M5S
(che si fonda però sulla nozione astratta di “cittadino”), possa esistere
davvero un processo di costruzione delle candidature che non sia in qualche
modo frutto di una qualche mediazione con coloro che sul territorio portano
avanti le diverse istanze di lotta che quelle candidature dovrebbero portare ad
espressione. Di più, mi chiedo se
sarebbe qualcosa di sensato e giusto oltre che effettivamente praticabile.
Cioè se in PaP debbono confluire, per
es., candidati espressione delle lotte No TAV…in che modo è possibile
sceglierli se non a partire da ciò che emerge in quegli stessi territori come
volontà condivisa? È
chiaro che questo processo funziona tanto meglio e in modo virtuoso quanto più
le singole vertenze si organizzano in forma assembleare e democratica. Lo stesso vale per le altre
lotte. Se ora noi ci troviamo
in PaP come candidati antispecisti è perché quello che abbiamo fatto in questi
anni ci ha reso credibili sia dentro che fuori AS. Non mi viene in mente un percorso diverso… Non è che esista
un’assemblea nazionale degli antispecisti!
BB: Fino a pochi mesi fa, un movimento
politico radicale come PaP, nato e partito in pochissimo tempo dalle volontà
collettive di chi vive in prima persona le lotte, le
vertenze sui territori e le varie forme di oppressione era impensabile. Proprio per questo quando mi è stato proposto di
candidarmi in quanto attivista antispecista mi sono persuasa che era possibile
tentare una nuova strada, certamente ardua, senza illusioni e ancora in
contrasto con molte pratiche e idee anche interne al movimento, ma pur sempre una nuova strada alternativa. Ci sarà molto da fare, a prescindere dal fatto se riusciremo a
passare il 3 % o meno. Ci sarà da lottare
dentro e fuori PaP per portare in luce in modo più sostanziale le istanze
antispeciste e renderle il più possibile comprensibili e convincenti. D’altronde quando in
America iniziò la lotta degli schiavi neri per la loro liberazione la società
bianca non fu certo favorevole, e le motivazioni per giustificare lo schiavismo
verso quegli umani non furono tanto lontane da quelle che si rivendicano oggi
verso gli altri animali. Un
nuovo percorso non prefigura ciò che sarà, tuttavia le premesse sembrano
incoraggianti. Certamente non mi fermerò e non mi
arrenderò, le esperienze servono a crescere, e io desidero far crescere il
senso di giustizia verso gli altri animali. Per
adesso mi sento di dire che l’antispecismo è entrato a pieno titolo nel
processo di cambiamento. Per questo abbiamo bisogno del sostegno di tutti e
tutte, di chi già ha abbracciato l’antispecismo e di chi ancora deve
comprenderlo a pieno. Umuntu ngumuntu ngabantu, “io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo”.
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